Un Natale in agrodolce
Non si può restare indifferenti all’atmosfera del Natale: tutti ne subiscono l’influenza, i più inebriandosi di chimere, alcuni lasciandosi immalinconire, altri viaggiando nella memoria di una perduta infanzia.
In coda a questi, ma non certo meno interessanti, si trovano gli eterni controcorrente, i contestatori a prescindere, coloro che affondano gli artigli nel copioso mese di Dicembre sicuri di trovare pretesti a iosa da dare in pasto al loro insaziabile e inguaribile malcontento.
Stefano, senza dubbio, era uno di loro.
In lui l’avversione per il periodo dell’Avvento era alimentata ulteriormente dalla concomitanza di ricorrenze che riguardavano sia il suo compleanno che l’onomastico: ebbene sì, era nato, proprio come Gesù Bambino, il giorno di Natale e a sua madre apparve una scelta ammirevole e religiosamente corretta assegnare al figlioletto il nome del primo martire della cristianità, Stefano appunto, dopo aver convenuto d’accordo con il marito che Gesù sarebbe apparsa come una scelta un tantino presuntuosa.
Stefano, pertanto, poteva ritenersi persino fortunato.
Non se ne rendeva conto, comunque, e piuttosto che soffermarsi sullo scampato pericolo, era cresciuto con un senso di ribellione sia per quel compleanno che non era stato mai solo il suo (ben sapendo che chi con lui lo condivideva era assai più festeggiato e ricordato) sia per quell’onomastico che il più delle volte trascorreva in sordina e nell’indifferenza di familiari storditi dai bagordi della festività appena trascorsa.
A pensarci bene, il concetto di “Ingiustizia Sociale” doveva aver trovato concepimento nella sua coscienza proprio in quei compleanni negati.
Consapevolmente o no, soffriva ancora per non aver avuto mai una torta di compleanno che fosse solo sua, di fattura casalinga decorata magari con un serpentello incerto di cioccolata che disegnava un semplice ma efficace “Auguri, Stefano!”. No, per lui c’era stata al massimo qualche candelina su un panettone farcito che gli appariva come un dolce in affitto.
Uvetta e canditi gli erano indigesti: evidentemente c’è una spiegazione per ogni cosa!
A 43 anni, comunque, con l’approssimarsi delle festività natalizie, nella sua mente non c’era più posto per torte e candeline, ma solo per doppi turni e straordinari sull’autoambulanza che riusciva a dare un senso all’ inquietudine e all’impotenza di una vita che non gli appariva mai abbastanza impegnata; inquieti non erano invece i suoi colleghi che gioivano nel saperlo disposto a sostituirli nei giorni sfavillanti di evanescenza.
Erano anni che pianificava il suo lavoro di infermiere in modo da trascorrere la notte di Natale e di Capodanno alla guida di un mezzo di soccorso: anche per lui, a ben guardare, si era consolidato un rituale di gesti e preparativi che si ripetevano puntuali e ai quali sembrava non saper più rinunciare.
Nella borsa che lo accompagnava ovunque non dovevano mai mancare, in quelle occasioni, un sacchetto di olive nere, un finocchio da sgranocchiare e un’arancia da succhiare lentamente, spicchio a spicchio: il menu dei suoi “cenoni” assomigliava così a un copione irrinunciabile che, strano a dirsi, aveva il sapore della tradizione.
Ciò che tradizionale non era, invece, ma risultava assolutamente imprevedibile era il tipo di interventi che in quelle notti si trovava costretto ad effettuare, il genere di umanità in cui si imbatteva, di solito persone fragili e smarrite che in sere come quelle scricchiolavano di più sulla sedia della solitudine fino a chiedere aiuto.
Ne aveva conosciuti tanti di donne e uomini traballanti e da ognuno di loro gli sembrava di aver tratto un insegnamento; ogni volto una storia, ogni storia un ricordo, ogni ricordo un luogo. Nella sua testa si era venuta delineando la mappa dei suoi incontri straordinari, visibile solo di notte, anzi, solo in alcune particolarissime notti.
La sera del 24 Dicembre 2016 Stefano si recò al pronto soccorso dell’Ospedale attrezzato e pronto a festeggiare il “suo” Natale; indossò la divisa da lavoro, scambiò gli auguri di rito con i colleghi che smontavano il turno, passò sulla spalla destra e intorno al collo la tracolla del suo cenone e si mise alla guida dell’ambulanza. Con lui quella volta c’era Massimo, un ragazzo che conosceva appena, da poco trasferito al 118. In silenzio si misero in movimento e si recarono dove gli era stato indicato per quella notte, presso una piazza a lui ben nota, lì dove maggiormente sarebbe potuta servire la loro presenza.
Ma era una notte diversa, quella, e non ci fu nessuna chiamata per loro, solo silenzio, un po’ di freddo e una pioggia sottile che attraverso i vetri dilatava morbidamente i contorni delle luminarie tutto intorno.
Passata da poco la mezzanotte, Stefano decise che fosse arrivato il momento di consumare il suo pasto rituale e gli sembrò naturale chiedere a Massimo che cosa avesse portato per sé.
Rispose inizialmente con un singhiozzo strozzato e proseguì poi con fatica confessando il dolore di una ferita che bruciava ancora: quello era il primo Natale che trascorreva lontano da casa, il primo anno in cui di fatto non aveva più una casa dove tornare: il terremoto di qualche mese prima che aveva colpito molte zone del centro Italia, aveva spazzato quasi completamente il suo paese e insieme ad esso la sua casa, i suoi ricordi, gli affetti. I genitori si erano miracolosamente salvati ma avevano dovuto abbandonare per il momento i luoghi delle radici trovando ospitalità presso alcuni cugini, in una città poco distante.
Ogni parola che si faceva suono iniziò a tessere un legame prezioso, un filo invisibile che permise a Stefano di capire a chi prestare soccorso quella notte.
Massimo continuava ormai a parlare come un fiume che aveva rotto gli argini e quando Stefano, dopo un breve momento di pensierosa distrazione, tornò a prestargli ascolto, si rese conto che il suo giovane collega stava descrivendo con una nostalgia inaudita la preparazione meticolosa con cui la mamma in occasione del Natale preparava degli gnocchi a suo dire insuperabili.
Di certo quel racconto creava sufficiente sazietà, ad entrambi.
Stefano guardò la sua borsa, ne ripassò il contenuto e disse con decisione:
“Non so certo cucinare come tua madre ma ti faccio ugualmente una proposta: appena smontiamo andiamo a casa mia, prepariamo degli gnocchi speciali e con quello che porto in questa borsa ci inventiamo un piatto da leccarci i baffi. Non ti dico cosa c’è qui dentro, ma ti giuro che ci farà sentire meno soli… e poi oggi è pure il mio compleanno: quindi non puoi dirmi di no!”