Il meccanismo di un tempo lieve
Alla fine restava sempre l’eco di una risata, il sapore deciso di una porzione di gioia gratuita che rapidamente si trasformava per me in ricordo fecondo.
La casa di Sebastiano, l’amico di sempre, non era esattamente un castello, anzi, non era neanche propriamente una casa, nel senso più comune del termine: era, sì, il luogo in cui lui abitava ma a essere obiettivi si potrebbe descrivere come un ambiente di 30 mq circa, in cui lo spazio era confusamente attrezzato in zona giorno e zona notte, vale a dire, disponeva di un letto per dormire, di un tavolo per mangiare, o magari leggere, scrivere, a volte solo pensare, una cucina a gas dotata di tre fornelli, più due sedie impagliate che mostravano per intero il peso che avevano sostenuto. Sulla parete opposta alla porta di ingresso si poteva trovare l’accesso per il bagno; per il resto, tutto lo spazio rimanente era occupato alla rinfusa da libri, giornali, CD e un’infinità di oggetti che, a dispetto dell’esiguità dei volumi, trovavano una loro collocazione poiché, se a una prima occhiata non se ne riusciva a capire il valore e il senso, costituivano per Sebastiano tasselli importanti di una vita irripetibile e solamente sua.
Ciò che rendeva però quel luogo la meta tradizionale e indiscussa per ritrovarsi, festeggiare, confidarsi, discutere, sognare, era il panorama mozzafiato che si poteva ammirare sostando sotto il portico di modesta fattura che Sebastiano aveva realizzato da solo per poter vivere il più possibile rintanato nel suo rifugio senza rinunciare del tutto al mondo.
Dal promontorio dove aveva scelto di stabilirsi, il mare appariva ancora più immenso e la fantasmagorica varietà di colori che dall’alba al tramonto si posavano come costumi teatrali sull’acqua, rendeva sempre più forte in Sebastiano la convinzione che, dopo tanto girovagare, la Bellezza non abbia bisogno di essere inseguita ma semplicemente riconosciuta e accolta.
Avevamo condiviso molto noi due, sempre inquieti e insoddisfatti, avevamo provato persino a sentirci eroi per poi riconoscere, col tempo, che le nostre erano solo battaglie degne della natura umana; abbiamo sbagliato, tanto, ma abbiamo avuto sempre la voglia di riscattarci aggrappandoci l’un l’altro nella ferma convinzione che l’amicizia può sostenerti più di un pilastro a patto che accetti di sorreggere anche paure, fragilità e debolezze che abbondantemente albergano in ognuno di noi.
Ogni volta che mi recavo a trovarlo, c’era sempre della musica che risuonava: ne era un grande intenditore e, senza esclusione di stili, la elargiva a tutti, a volume basso, come omaggio di benvenuto poiché era convinto che l’incorporeità dei suoni fosse in grado di avvolgerci meglio di una coperta, e che per questo si adattasse agli individui, tutti, senza fatica, così che ciascuno la percepisse come una carezza, o meglio, un suggerimento sussurrato a inspirare profondamente prima di rompere quell’incanto con parole avvelenate.
È lì che ho fatto ogni volta pace con il mondo.
Mi rivedo ancora sotto quel portico inespugnabile, seduto a terra, spalle alla parete, ginocchia contro il petto, Sebastiano al mio fianco che si mette all’unisono con il mio respiro; davanti a noi, spesso, un piatto di pere e formaggio e la sensazione di aver raggiunto un approdo.
Con i polmoni gonfi d’aria, gli occhi che rubavano colori, il palato che plasmava sapori, era in quei momenti che ci sentivamo davvero vivi, inglobati senza sforzo nel meccanismo di un Tempo lieve.